"Ciao, è tanto che aspetti?", "E' tutta la vita che ti aspetto". • Shortlink
Ieri sera mi sono addormentata con una parola nella testa, volevo alzarmi e scriverla e cominciare da lì il post di oggi, ma per pigrizia mi sono girata su un fianco, ho spento la luce, ho chiuso gli occhi. E ora non ricordo più quale fosse.
Parto dalla parola inconseguenza, senza un perché necessario. Mi piace come parola, mette in prima fila tutto quello che non è logico o quantomeno non è prevedibile né linearmente atteso.
Sono stati giorni apparentemente silenziosi. Non stavo dormendo, non ero nemmeno distratta, tutt’altro, credo d’essere stata molto concentrata. Durante una notte d’insonnia ho persino aperto ‘’Il libro nero di neurologia’’. Patologie dalla A alla Z. Un vero e proprio elenco alfabetico. Copertina nera. E questo titolo che sembra quasi star lì a sorridere. Buffo, se ci pensate, intitolare così un libro che non ha niente a che vedere con la letteratura, ma solo con il metabolismo e lo sviluppo di cellule neuronali.
Eppure (o forse proprio in funzione di questo) è un titolo che ha in sé tutta la poesia. La stessa contenuta in alcune definizioni fisiche di ‘atomo’.
Scrivo perché, come giustamente ci fanno notare, il silenzio ha il suo suono, ma non deve mai scadere in un mutismo.
Sono passati sei giorni ormai da quando lessi le parole di Chet Baker e delirai un po’, sognando la fantasia di sparizione.
Nel frattempo, mi sono passati fra le braccia alcuni bambini e con loro l’alternanza in me di una sensazione di grande capacità e, all’opposto, di assoluta incapacità.
‘’Non siamo onnipotenti’’. Così mi ha risposto una neuropsichiatra un pomeriggio. La ringrazio di nuovo ora per avermi tolto di dosso trenta chili che mi ero caricata sulle spalle e pesavano troppo.
Sono giorni, questi, che stanno in mezzo, giorni tra ciò che c’è ora e tutto quello che deve venire.
Sono state mattine di risvegli difficili, di scelte, di attimi in cui mi sono sentita onnipotente – anche sulla mia volontà – e poco dopo assolutamente impotente di fronte ad azioni del tutto inconseguenti (la cosa divertente è che ho preso pure un muro in faccia, voltandomi a sinistra appena uscita da una porta). Si capisce cosa significhi inconseguente?
Magari sono ‘solo’ sogni o speranze. Facendo le nostre ricerche su tutto quello che lega l’uomo e la natura, si ascoltano le canzoni, si abbracciano le persone, si lavora duramente e con amore viscerale, si chiede silenziosamente di non essere lasciati soli, di essere capiti nello stesso momento in cui noi per primi non riusciamo a capire, si conta la velocità delle sillabe, si aggrottano le sopracciglia per fare smorfie, si butta giù il boccone di troppo, si fanno telefonate solo perché manca una voce che ci restituisca la vita ai ricordi di vento salmastro.
Forse, la conoscenza non ha fondamento nella natura. Può essere solo “umana”: cioè un’invenzione. Una proposizione: più inquietante e assurda di una macchina da scrivere in una radura della foresta amazzonica (…). Per concludere che il movimento – nel pensiero che non ha una realtà ‘spaziale’ – deve essere pensato come una ‘trasformazione’. La trasformazione della natura in natura umana. Era qualcosa. Era moltissimo. Era ‘tutto’.
Ci sto… e sto con gli esseri umani, con la poesia della realtà che mi si fa davanti, con la distinzione tra natura e natura umana, con la riproposizione nuova di un diritto alla vita e di un diritto alla felicità - se ogni bambino e ogni adulto sono dei nati (sarà una specie da registrare nei manuali, forse… tanto per dire che vorremmo davvero ribadire ogni esistenza di nascita umana). Ci sto. Sto nel lavoro, nello studio e nelle applicazioni di metodo, che non è rigidità e freddezza come solo i cinici possono credere, ma certezza di far le cose per bene (‘certo… si poteva fare meglio’). Metodo che si lega alle scoperte (‘da qui, non si può più tornare indietro. Ormai siamo dei nati’). E ci sto con la “Fisica per poeti”, perchè se di solitudine si deve morire, allora si morirà per viverla nelle notti senza sonno con i libri fra le mani. Metodo scientificamente poetico per dire della bellezza del tatto di certi amori, che ti toccano senza chiedere il permesso, che non sono per niente delicati ma soltanto irrimediabilmente invadenti, che a volte sembrano non avere linguaggio, ma ti costringono comunque a trovarne uno. Sto e ci sto a non cercare, perché tutto sta nel trovare (ancora nemmeno un musicista ci ha trovato l’accordo che dica questa differenza. Ma aspetteremo ancora).
Leggo più avanti un post di qualche giorno fa. Avevo già notato una trasformazione: il titolo. Poi di parola in parola, anche il testo si è trasformato. C’è pure la musica – non a caso – in mezzo.
E ricordo, sempre qualche giorno fa: mi avevano regalato la parola distanza. Credo fosse perché sapevano che ormai manca poco (‘Basta poco…’) a prendere un volo per San Paolo, e tutte quelle ore in aeroporto e sugli aerei su cui imbarcarmi renderanno giustizia a quanto la teoria della relatività ha scoperto. Distanze che sono forse separazioni: tra la parola spazio e la parola tempo. La distanza suonerà in quelle ore che stanno 'in mezzo', il tempo si dilaterà non su uno spazio, ma attraverso un movimento. Saranno abbracci.
‘’Sono per le pieghe di un gomito, sono per i dettagli. E sono per quelle volte che ti dice Che bello che sei tornata la persona da cui torni. Anche quando non si torna”.
Sono qui che non posso immaginare come mi pensino le persone che mi verranno a prendere in aeroporto, né posso immaginare io di loro, pur stando qui a tentare di pensarle.
Ma c’è un’immagine che vorrei portarmi dietro con la parola distanza: l'immagine della linea, che ha distanze talmente tanto infinite e incalcolabili da toglierti il respiro.
C’è una ricerca da fare. Semplicemente una ricerca da fare, dici, Che Guevara. Finchè l’altro sarà l’oggetto della nostra ricerca, Che, la ricerca sarà infinita perché l’altro si cerca sempre e non si prende mai. Perché, dici, ogni altro rimanda a tutti gli altri. D’altra parte, dici, se l’oggetto della ricerca fosse dato la ricerca sarebbe finita. Solo se l’oggetto è impossibile possiamo infinitamente cercare, Che. Noi, Che, un giorno avremo forse le idee un po’ più chiare sulla lunghezza dei nostri capelli. Quel giorno, di certo, cambieremo barbiere. Per non essere uccisi, Che. Per continuare a cercare. Fino a che, fino a quando… non ci importa sapere, Che (“Poesie per il Che”, Claudio Badii, Samarcanda 1995)
(L’illusione, se mai c’è n'è stata una, stava soltanto nel tentativo di porre un limite alla nostra fantasia, mascherato in un punto di arrivo o in una destinazione da raggiungere… Che ne so. Qui ora sentiamo solo che, in modo molto lento e senza alcuna vana euforia, non riusciamo più a star fermi).
http://www.youtube.com/watch?v=hXe1jpHPnUs
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